La Chiesa Santa Maria di Portonovo
STORIA DEL MONUMENTO
In un altro documento si fa riferimento a legami esistenti tra il centro ecclesiale e la figura di San Gaudenzio, un vescovo dalmata, fuggito dalla sua patria, approdato ad Ancona e infine a Portonovo, dove sarebbe morto negli anni tra il 1042 e il 1048, legato da amicizia a San Pier Damiani, un monaco ravennate divenuto nel 1057 abate del cenobio di Fonte Avellana, una chiesa di una congregazione riformata da papa Gregorio VII, che, per la sua navata centrale voltata, può essere considerata stilisticamente erede di Santa Maria di Portonovo, ritenuta in passato, per la sua posizione sulle rive del mare Adriatico, una probabile dimora del Santo, come ricordato nel XXI canto del Paradiso di Dante, vv. 121 – 123.
Nel 1320, il 17 gennaio, il vescovo Nicola degli Ungari redasse un atto con cui trasferì ad Ancona, nella chiesa di S. Martino, i monaci benedettini: fu così abbandonato il sito, minacciato da frane e terremoti, che avrebbero provocato la distruzione del chiostro e relativo monastero, eccezionalmente collocato a Nord, dove attualmente è la scarpata a mare, ma anche risultato troppo vulnerabile per la sua posizione isolata in un’area boscosa, spesso soggetta alle incursioni dei pirati.
Alla metà del Quattrocento la chiesa, sotto la tutela del capitolo della cattedrale di Ancona, ospitava solo qualche eremita ed era officiata da un cappellano in occasione della festa dell’Assunta.
Nel 1518 si ricorda un’incursione turca, che arrecò ulteriori danni al complesso mentre nel 1663 le fonti attestano la sola presenza di mura diroccate.
Nel 1769 il cardinale Buffalini dichiarò che il monastero, con il suo campanile, era andato in rovina.
Nel 1808, quando Ancona fu annessa da Napoleone al Regno d’Italia, a seguito di un tentativo di sbarco perpetrato dagli Inglesi, alleati degli Austriaci, entrambi avversari dei Francesi, si stabilì di lasciare un contingente di 600 uomini a presidio della baia. Nell’occasione si utilizzò per erigere il “fortino napoleonico”, il materiale di risulta, proveniente dall’area dell’abbazia, presumibilmente quel che restava dell’antico monastero di Santa Maria, distruggendo così le ultime testimonianze del cenobio.
Nel 1837, nell’età della Restaurazione, il bene tornò in possesso della Chiesa e fu parzialmente restaurato da un eremita, l’abate Casaretto.
Visitando questa Chiesa si può provare la sensazione di trovarsi al tempo in cui c’erano i monaci benedettini
Nel 2002 è stata effettuata una ricognizione archeologica che ha riportato in luce nell’area a nord-est rispetto alla chiesa sia tracce della fondazione di un elemento murario, presumibilmente una torre campanaria, sia i piani di calpestio e strutture edilizie pertinenti a più fasi di vita del complesso, a conferma dell’ipotesi di ubicazione del chiostro proprio a ridosso della costa. Nella medesima occasione nell’area meridionale si sono individuate fosse terragne o rivestite di blocchi in pietra calcarea, coperte da tegole e coppi, pertinenti all’area sepolcrale. Attualmente la chiesa dipende dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo delle Marche ed è in consegna alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche.
DESCRIZIONE DEL MONUMENTO
Tali percorsi sono evidenziati anche dalla disposizione degli elementi della pavimentazione, originaria pur restaurata, costituita da mattonelle in cotto che delimitano elementi in pietra: di fronte all’altare maggiore sono disposti a quadrato, avanti alle absidi delle cappelle laterali vi sono due rettangoli, per sottolinearne la funzione sacra, accentuata dalla presenza di tre gradini che ne distinguono altimetricamente la quota. Al centro dell’edificio, sotto la falsa cupola, destinata al coro dei monaci, la pavimentazione presenta un altro quadrato, affiancato lateralmente da due rettangoli che congiungono le cappelle alle navate laterali.
Nella costruzione della chiesa i suoi artefici hanno sfruttato più tipologie architettoniche, adeguandole alle proprie esigenze. Entrando nell’edificio apparentemente costituito da tre navate a sette campate, affiancate da due navate laterali di tre campate, coperte a spioventi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un impianto longitudinale, scandito da dodici colonne e quattro pilastri al cui interno la pavimentazione costituita da rettangoli con il lato breve verso l’altare centrale sembra indicarne l’andamento longitudinale, sottolineato anche dalla suddetta autonoma copertura a doppio spiovente delle due navate laterali, ma la falsa cupola centrale sorretta da un tamburo su trombe d’angolo poggianti su quattro pilastri cruciformi e rivestita da un tiburio rettangolare esterno, suggerisce un impianto cruciforme. Tale tipologia architettonica è stata considerata il primo esempio di pseudobasilica nelle Marche, una chiesa “a sala” per la sua caratteristica di presentare la navata centrale, coperta da una volta a botte, più elevata delle laterali, coperte da volte a crociera per supportare la spinta esercitata dalle pareti, prive di aperture per non indebolirne la struttura, della navata centrale. Al suo interno la luce, penetrando a taglio radente dalle monofore absidali a doppio strombo e dalle bifore presenti nel quadrato d’imposta e dalle trifore del tiburio, quasi a voler delineare gli spazi interni privi di decorazioni pittoriche, sortisce effetti cromatici presentandosi uniformemente diffusa, per adeguarsi a una concezione orientale, ma soprattutto anche per l’impossibilità, nell’architettura romanica, di indebolire con aperture i muri portanti. L’analisi della pianta sembra rimandare a modelli cluniacensi (l’impianto di Cluny II), ma le arcatelle pensili nelle pareti richiamano la tipologia cistercense. Mentre la collocazione cronologica tra San Claudio al Chienti e San Vittore alle Chiuse, induce ad ipotizzarne la fondazione ecclesiale tra il 1070 e il 1080.
Si ringrazia per il sostegno la Agenzia Generale di Ancona di AXA ASSICURAZIONI.